Alejandro Parisi

Alejandro Parisi

lunes, 6 de febrero de 2017

La bambina che sognava il cielo. Fragmento en italiano.






Ed. Piemme. Traduzione di Francesca Capelli. Gennaio 2017

1

In piedi su una sedia, Nusia osservava la strada dalla finestra, in attesa dell’arrivo di Ruzyczka. Il giorno prima, l’istitutrice le aveva promesso una passeggiata al parco. La giovane però non si vedeva ancora e Nusia era impaziente, come può esserlo solo una bambina di cinque anni che aspetta di uscire di casa per andare a giocare ai giardini. Fridzia, la sorella maggiore, era a scuola. La nonna paterna Hanna, che viveva con loro, era andata a casa della figlia. E Nusia si annoiava.
Sentiva il ticchettio delle macchine da cucire, che arrivava dal piccolo laboratorio di sartoria che i suoi genitori avevano allestito in una delle stanze del loro enorme appartamento. Le sarte non smettevano mai di lavorare. Nusia scese dalla sedia e andò al laboratorio. La porta era socchiusa. La bambina si affacciò, in punta di piedi, per vedere se c’era suo padre. Ci trovò solo Helena, la madre, che discuteva dei bottoni da cucire sul soprabito che stava finendo con una delle operaie.
Si allontanò in fretta. Le era proibito entrare durante le ore di lavoro. A volte, però, escogitava qualche stratagemma per osservare i suoi genitori senza essere scoperta.
Le piaceva vedere sua madre che dava istruzioni alle dipendenti, la sicurezza con cui parlava dei modelli e delle cuciture, dei tagli e delle stoffe che si affastellavano in quella stanza trasformata in laboratorio. Ma ancora di più le piaceva guardare suo padre mentre conversava con i clienti che facevano gli ordini di camicie, giacche da camera, toghe e pigiami raffinati. Avvocati, giudici, militari e funzionari polacchi... Tutti trattavano suo padre con rispetto e lui li conquistava con i suoi modi educati e signorili, da uomo di mondo.
All’improvviso Nusia sentì il rumore della porta che si apriva. Si girò, pensando che fosse l’istitutrice, ma sulla soglia c’erano due uomini. Uno di loro era suo padre. Appena lo vide, Nusia corse ad abbracciarlo. Suo padre per un attimo prese in considerazione la possibilità di uscire con la figlia e godersi il sole di quel giorno di settembre, anziché entrare nel proprio ufficio con il cliente. Ma alla fine si limitò ad abbracciarla e a baciarla sulle guance, per poi dirle di tornare alle sue cose e permettergli di concludere una nuova vendita.
Nusia borbottò qualche protesta, ma sapeva bene che, quando il piccolo laboratorio era aperto a dipendenti e clienti, le era proibito disturbare i suoi genitori. A volte faceva fatica ad accettarlo: il fatto che suo padre fosse nella stanza accanto ma che lei non potesse andare da lui a giocare, a chiacchierare o anche solo a sfiorarlo, la metteva di cattivo umore. Però si doveva rassegnare. Sua madre le aveva spiegato che l’istitutrice, la cameriera, la casa, il cibo, le passeggiate, persino i suoi giocattoli, tutto ciò che avevano insomma, era grazie a questo lavoro.
Suo padre si chiuse in ufficio con il cliente e lei tornò alla finestra. Pochi minuti più tardi Ruzyczka entrò in casa, elegante come sempre. Appena la giovane vide Nusia,
le puntò contro un dito accusatore.
«Una signorina come te non può sedersi così. Te l’ho detto mille volte, Nusia. Chiudi le ginocchia.»
«Mi porti al parco?»
La casa si trovava a pochi metri dal Teatro dell’Opera e dal palazzo del sindaco, in una delle zone più esclusive di quella città – abitata in parti uguali da polacchi, ebrei e ucraini – che, nel corso dei secoli, aveva più volte cambiato bandiera e nome. Un tempo era Lev, in onore del figlio del re Daniele di Galizia, che l’aveva fondata nel 1256. Cento anni più tardi venne conquistata dai polacchi, che la chiamarono Lwów. Nel 1772 passò agli austriaci e, con il nome di Lemberg, divenne la capitale di una delle più importanti province dell’Impero austro-ungarico, la Galizia. Dopo la Prima guerra mondiale e la caduta dell’impero, tornò ai polacchi che recuperarono il nome di Lwów1.
Di questa storia, però, Nusia sapeva poco e niente. Per lei Lwów era un formicaio, un brulichio di gente che parlava in polacco, yiddish e ucraino, che entrava e usciva dalle belle chiese ortodosse, da imponenti cattedrali cattoliche e sinagoghe dalla facciata austera. Le piaceva vedere intorno a sé persone tanto diverse tra loro.
Appena uscita, come sempre, corse al mercato che i contadini arrivati dall’interno del paese allestivano ogni settimana per vendere i loro prodotti – animali, pane, frutta e verdura – agli abitanti della città. Mentre Ruzyczka la cercava, Nusia osservava i contadini e gli ebrei ortodossi con i loro vestiti, così diversi da quelli che confezionava suo padre.
Alla fine, Ruzyczka la prese per mano e la strappò al mercato e al puzzo di sterco degli animali, allontanandosi con lei lungo la strada principale. Fridzia non sarebbe uscita da scuola prima di un paio d’ore, così comprarono biscotti al miele in un negozio e andarono al parco.
Ruzyczka era una ragazza intelligente, di buona famiglia, proprio come Nusia. Conosceva bene i libri e le persone più importanti. Si era laureata in filosofia, ma non poteva insegnare perché la quota di docenti ebrei era già completa. Doveva aspettare che qualcuno andasse in pensione, morisse o si licenziasse, per prendere il suo posto. Nel frattempo si accontentava di lavori per i quali era fin troppo qualificata.
Stavano chiacchierando nel parco quando sentirono un grido in lontananza. Subito dopo Nusia vide un gruppo di uomini, armati di bastoni, che si facevano strada nel prato. Immediatamente Ruzyczka la strinse a sé, come per proteggerla, e la spinse verso l’uscita. Mentre si allontanavano, Nusia riuscì a vedere con la coda dell’occhio che gli uomini avevano cominciato a picchiare alcune persone, urlando: «Gli ebrei fuori, le ebree con noi».
Confusa, ma senza smettere di guardare, Nusia si allontanò con Ruzyczka, che continuava a spingerla via.
Si diressero verso la scuola di Fridzia, e Nusia, appena la vide, si affrettò a raccontarle la scena a cui aveva appena assistito. Sua sorella ne fu inorridita. Nusia, invece, provava solo molta curiosità.
Era venerdì. Mentre per le strade di Lwów i polacchi inseguivano quegli ebrei, sorpresi nel parco, altri ebrei erano nelle loro case a prepararsi per lo shabbat. Come tutti i venerdì, a casa degli Stier le candele accese proiettavano strane ombre sul soffitto. Nusia, Fridzia e Helena, sedute a tavola, aspettavano che Rudolph si lavasse le mani nella bacinella che aveva davanti a sé. Poi lo sentirono mormorare una preghiera e, solo allora, iniziarono a mangiare. Fatta eccezione per il servizio di piatti, il cibo kosher e la mezuzah fissata sulla cornice della porta, la loro casa era molto diversa da quella della maggior parte degli ebrei. Lo shabbat era già cominciato, eppure le luci erano accese e, il giorno dopo, i suoi genitori sarebbero andati a teatro anziché alla sinagoga.
Rudolph aveva assaggiato appena il pesce ripieno. Era inquieto. Di tanto in tanto si affacciava alla finestra, per poi tornare al tavolo.
«Dove sarà andata?» chiese.
«A casa dei tuoi fratelli. Fa sempre così, non capisco perché ogni volta ti preoccupi. Tua madre ha più paura di me che di Petliura.»
«Chi è Petliura?» domandò Nusia.
«Un ucraino che ha guidato centinaia di pogrom» rispose suo padre.
«E che cos’è un pogrom?»
«Qualcosa di molto peggio di ciò che hai visto oggi al parco» intervenne Helena con un gesto assente.
Alla fine, quando la porta si aprì e Rudolph vide entrare sua madre, si rimise a tavola sollevato. La nonna Hanna salutò tutti a voce bassa, si scusò per il ritardo e andò direttamente nella sua stanza. Quando riapparve, si sedette al suo posto e iniziò a mangiare. Nusia non capiva perché la nonna passasse la giornata altrove. E nemmeno
perché non parlasse con sua madre.
Cenarono in silenzio. Una volta messe a letto le bambine,
Rudolph e Helena andarono a bere un bicchiere al Caffè Roma. Avrebbero finito la serata al cinema, fiduciosi che la città avesse recuperato la sua abituale tranquillità.

1 In italiano Lwów corrisponde a Leopoli [N.d.T.].

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